Medici sotto pressione, pazienti a rischio: la crisi strutturale del SSN

Nella mia esperienza come avvocato specializzato in casi di malasanità, osservo quotidianamente un paradosso inquietante: nella maggior parte dei casi, l’aumento dei contenziosi sanitari non deriva dalla minore preparazione dei medici, ma dalle condizioni strutturali inadeguate in cui sono costretti a operare.

Le storie di vite spezzate o compromesse da errori sanitari che ascolto ogni giorno nelle aule di tribunale hanno un denominatore comune: professionisti qualificati che lavorano in un sistema che non offre loro gli strumenti per garantire l’eccellenza che la loro formazione permetterebbe.  

Il quadro attuale

I numeri rivelano una realtà preoccupante: l’Italia forma eccellenze mediche che poi sceglie di sprecare. La formazione dei professionisti sanitari italiani avviene attraverso anni di studi rigorosi e specializzazioni pratiche negli ospedali pubblici, creando figure altamente qualificate riconosciute a livello internazionale. Tuttavia, di fronte a condizioni di lavoro sempre più critiche e carenti, molti scelgono di emigrare all’estero, dove possono valorizzare le proprie capacità professionali.

Il gap è strutturale: i dati OCSE evidenziano che l’Italia investe nella sanità pubblica significativamente meno rispetto agli altri paesi europei. A pagarne le conseguenze è la salute dei cittadini.

Il paradosso dei numeri: evasione vs fabbisogno sanitario

I casi di malasanità sono obiettivamente aumentati, e il nostro servizio sanitario nazionale è in condizioni allarmanti: mancano circa 35 miliardi di euro per mantenere standard adeguati e per allinearci agli altri paesi europei. La spesa sanitaria pubblica in Italia è inferiore del 16% rispetto alla media UE: questo significa meno risorse per ospedali, per medici e per servizi essenziali.

Eppure, se guardiamo ai numeri con occhio critico, emerge un paradosso sconcertante. Mentre per allineare la nostra spesa sanitaria agli standard europei servirebbero 35 miliardi di euro, l’evasione fiscale in Italia raggiunge circa 80 miliardi di euro all’anno secondo i dati dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In altre parole, quello che sottraiamo illegalmente alle casse pubbliche supera di gran lunga ciò che servirebbe per risolvere la crisi sanitaria.

Ma il problema non è solo di carattere politico-economico, è soprattutto strutturale: a finanziare concretamente il servizio sanitario pubblico è solo una parte della popolazione, quella che paga le tasse, mentre quelli che le evadono beneficiano di cure gratuite pur non versando nulla nelle casse dello Stato. Come può reggere un sistema basato sulla solidarietà se il peso è distribuito in modo così squilibrato?

Questo squilibrio si traduce in una pressione fiscale sempre più elevata su una ristretta fetta di cittadini. Abbiamo una popolazione sempre più anziana con una domanda crescente di cure costose, mentre l’economia genera pochi nuovi contribuenti. Il risultato è che il carico fiscale si concentra su pochi, mentre l’intero sistema diventa sempre più instabile.

La crisi della medicina territoriale

I mancati investimenti nella sanità pubblica italiana sono evidenti nei numeri: nel 1997 i Pronto Soccorso erano 782 su tutto il territorio nazionale, nel 2010 se ne contavano solamente 410. La situazione non migliora su altri fronti: tra il 2019 e il 2023 sono venuti meno 5.000 medici di base, con una diminuzione del 12,8%.

Questo scenario si traduce in un sovraccarico per i professionisti ancora attivi: meno medici, più pazienti. Non sorprende che spesso si superi il limite di 1.500 pazienti per medico, ricorrendo a deroghe specifiche.

Di conseguenza, sempre più pazienti non riescono ad accedere alle cure primarie, dovendo fare i conti con lunghe attese e indisponibilità dei professionisti. Senza interventi tempestivi delle istituzioni per riformare il sistema, la situazione è destinata a implodere.

Le disparità territoriali

La ripartizione delle risorse del Fondo Nazionale Sanitario non segue criteri equi per tutte le regioni, spesso mancando di parametri oggettivi. Gli investimenti nella sanità pubblica dovrebbero essere distribuiti secondo due criteri principali: età della popolazione ed emarginazione sociale. Tuttavia, i dati dimostrano che questi principi rimangono spesso solo teorici.

Le statistiche ufficiali rivelano anomalie significative: la Campania, pur avendo la popolazione più giovane d’Italia, riceve meno investimenti rispetto a regioni settentrionali come la Liguria. Questo crea un’Italia divisa e frammentata, dove l’accesso alle cure dipende dal territorio di residenza. Chi ha la fortuna di vivere in regioni meglio finanziate si cura prima e meglio, mentre altri sono destinati ad attendere o, nei casi più gravi, a soccombere.

Il circolo vizioso: stress e rischio malasanità

La gestione critica del sistema sanitario nazionale non compromette solo la salute dei pazienti, ma anche quella dei medici. Il lavoro del personale sanitario è caratterizzato da stress crescente, turni eccessivi e carichi insostenibili.

Un caso emblematico emerge dalla Campania, dove un medico ha citato in giudizio l’ASL Napoli 3 per ottenere un risarcimento per danni da stress lavorativo.

La Corte di Appello di Napoli ha condannato l’ASL a risarcire 100.000 euro al professionista per violazione delle prescrizioni fondamentali sulla salute. Il medico si era trovato a lavorare nel reparto di ortopedia e traumatologia anche per 24 ore continuative, senza poter usufruire delle ore di riposo necessarie per preservare la propria salute fisica e mentale. In condizioni simili, il rischio di errori medici causati da stress lavorativo diventa preoccupante.

A causa della carenza di personale e del contesto strutturale inadeguato, migliaia di medici negli ospedali pubblici italiani, compresi gli specializzandi, si trovano in situazioni analoghe. Molti giovani ricercatori scelgono di emigrare per poter lavorare in condizioni economicamente gratificanti e in contesti che permettano di garantire cure tempestive ed efficaci ai pazienti.

Le prospettive future

Se osserviamo la situazione con lucidità, emerge una verità scomoda: il nostro sistema sanitario è ormai al collasso, e continuare a tamponare le falle senza un cambio radicale di rotta significa solo rimandare l’inevitabile.

La domanda che dovremmo porci non è se riusciremo a salvare il sistema attuale, ma quanto tempo abbiamo prima che crolli definitivamente. Perché mentre continuiamo a investire miliardi in cure tardive, sprechiamo l’opportunità di costruire un modello davvero sostenibile basato sulla prevenzione e sulla longevità in salute.

Il paradosso è evidente: abbiamo creato un sistema che interviene solo quando il danno è fatto, quando le patologie sono ormai conclamate e i costi alle stelle. È come riparare continuamente una diga che perde invece di costruirne una nuova.

Ogni giorno che passa, i Pronto Soccorso vengono letteralmente presi d’assalto da pazienti che potrebbero essere gestiti altrove, mentre i casi davvero urgenti rischiano di non ricevere le cure necessarie per mancanza di personale e risorse.

Ma il problema più grave è che questo sistema disfunzionale si regge su un finanziamento inadeguato e mal gestito. Non basta aumentare i fondi se poi li disperdiamo in sprechi e inefficienze. Serve una vigilanza rigorosa e la volontà politica di fare scelte impopolari ma necessarie. Serve soprattutto capire che il vero investimento non è curare le malattie, ma impedire che si manifestino.

Perché alla fine, il punto cruciale è questo: finché continueremo a concepire la sanità come un servizio di riparazione invece che di prevenzione, e finché ogni cittadino non si sentirà responsabile della propria salute attraverso stili di vita consapevoli, il sistema continuerà a consumare risorse senza mai raggiungere la sostenibilità. E quando collasserà, non avremo scuse da accampare.

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