Aziende Ospedaliere Universitarie: 25 anni di vuoto normativo che mina la sanità

In Italia formiamo medici eccellenti che il mondo ci invidia, ma li facciamo laureare in un sistema che dal 1999 vive nell’illegalità. Gran parte delle Aziende Ospedaliere Universitarie che dovrebbero rappresentare l’eccellenza della sanità italiana operano infatti senza la legittimità giuridica prevista dalla legge.

Un paradosso che racconta molto del nostro Paese: da un lato, eccellenze mediche riconosciute globalmente; dall’altro, un sistema normativo che da un quarto di secolo non riesce a regolamentare le strutture che formano i nostri professionisti sanitari. Il risultato? Migliaia di medici si laureano ogni anno in istituzioni che, tecnicamente, non dovrebbero esistere.

Il decreto fantasma che ha paralizzato la sanità universitaria per 25 anni

Il Decreto Legislativo 517 del 21 dicembre 1999 doveva rappresentare una rivoluzione: unificare assistenza, ricerca e formazione medica in un unico modello, quello delle Aziende Ospedaliere Universitarie (AOU). L’obiettivo era ambizioso e condivisibile: superare il dualismo storico tra Policlinici Universitari e ospedali, creando centri di eccellenza capaci di coniugare cura del paziente, formazione degli studenti e ricerca scientifica.

Venticinque anni dopo, il risultato è un fallimento conclamato. La maggior parte delle AOU attive in Italia opera senza il previsto provvedimento costitutivo richiesto dalla legge. Come è possibile? Il decreto stabiliva che ogni Azienda Ospedaliera Universitaria dovesse essere costituita attraverso specifici protocolli d’intesa tra Regioni e Università, con modalità precise e controlli rigorosi.

Questi protocolli, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono mai stati sottoscritti o sono stati redatti in modo generico, senza le specificazioni operative richieste. Un’indagine del Ministero della Salute del 2011 aveva già evidenziato che “le norme contenute nei protocolli d’intesa risultano particolarmente astratte e generali, senza ricadute immediate dal punto di vista operativo”. In un paradosso tipicamente italiano, un’eccellenza che ci invidia il mondo intero continua a vivere nell’illegalità, ostaggio di una burocrazia immobile.

La situazione si è ulteriormente complicata con l’autonomia regionale introdotta dalla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Invece di chiarire le competenze, ha moltiplicato le interpretazioni arbitrarie, permettendo a ogni Regione di navigare a vista secondo logiche locali spesso poco trasparenti.

L’ultima occasione mancata risale al 2010, quando la legge Gelmini prevedeva la promulgazione di uno schema tipo di convenzioni tra Regioni e Università. Su 50 decreti attuativi previsti da quella legge, il decreto cruciale per regolare i rapporti tra Servizio Sanitario Nazionale e Università non è mai stato promulgato. Le responsabilità sono trasversali: tutte le forze politiche, di fronte alle resistenze universitarie e sindacal-ospedaliere, hanno preferito non affrontare il nodo gordiano della governance sanitaria universitaria.

Quando l’illegalità diventa prassi consolidata nel sistema sanitario

Il vuoto normativo ha generato quello che potremmo definire un “far west istituzionale“, dove l’assenza di regole chiare ha permesso la proliferazione di pratiche discutibili, se non illegali.

Le nomine senza concorso sono diventate prassi consolidata. Senza procedure standardizzate, i ruoli dirigenziali vengono spesso assegnati attraverso meccanismi interni che bypassano i concorsi pubblici. Il risultato è un sistema in cui la competenza conta meno delle relazioni personali o degli equilibri accademici.

Un caso emblematico è quello dell’Azienda Ospedaliera Mater Domini di Catanzaro, che per due decenni si è “autoproclamata” AOU senza nemmeno un provvedimento regionale che la definisse come tale. La struttura risulta ancora oggi classificata come semplice Azienda Ospedaliera sia nei database ministeriali che in quelli europei, eppure continua a operare come AOU.

I doppi incarichi retribuiti proliferano senza controllo. La sovrapposizione tra ruoli universitari e sanitari, in assenza di regolamentazione chiara, ha permesso cumuli di compensi spesso sproporzionati rispetto alle responsabilità effettive. Dirigenti che ricoprono contemporaneamente ruoli accademici e manageriali, con stipendi che possono raggiungere livelli difficilmente giustificabili.

La frammentazione artificiale dei reparti rappresenta forse l’aspetto più grave di questa deriva. Per moltiplicare le poltrone dirigenziali, si assiste alla suddivisione di unità operative che dovrebbero rimanere integrate. Il risultato è una disorganizzazione strutturale che compromette l’efficienza delle cure e genera sprechi economici significativi.

La formazione medica ne paga le conseguenze più pesanti. Gli studenti di medicina assistono quotidianamente a un sistema dove la meritocrazia è spesso sostituita da logiche di appartenenza. Questo mina alla base la credibilità delle istituzioni formative e demotiva le giovani generazioni di medici, compromettendo il futuro della sanità italiana. Un fenomeno che si inserisce in una crisi più ampia del sistema sanitario nazionale dove gli operatori sanitari lavorano in condizioni sempre più difficili.

Il paradosso accademico: quando chi insegna medicina non sa più curarsi dei pazienti

Esiste un aspetto particolarmente critico che caratterizza il sistema delle AOU italiane, che merita una riflessione schietta e senza mezzi termini.

Una delle prove più tangibili del “genio italico” è aver messo ai posti di comando della sanità i “Professori Ordinari” che, avendo passato la vita ad insegnare medicina, spesso non hanno avuto il tempo di praticarla davvero. La politica clientelare ha creato un sistema in cui i “figli di” occupano ruoli dirigenziali senza le competenze necessarie per ricucire nemmeno una ferita su un manichino.

Il problema non è la teoria medica, che in Italia è di altissimo livello. Il problema è la disconnessione crescente tra mondo accademico e pratica clinica. Professionisti che hanno costruito la loro carriera principalmente su pubblicazioni scientifiche e lezioni universitarie si trovano a dirigere reparti ospedalieri senza aver mai sviluppato quella sensibilità clinica che si acquisisce solo stando al letto del paziente.

L’università dovrebbe formare medici, non burocrati. Invece, il sistema attuale premia spesso chi sa navigare meglio nei meandri accademici piuttosto che chi sa curare. È un’inversione di priorità che ha conseguenze dirette sulla qualità dell’assistenza sanitaria.

Il nepotismo accademico ha trasformato molte AOU in feudi personali dove conta più la genealogia professionale che la competenza clinica. Un meccanismo che non solo danneggia la qualità delle cure, ma scoraggia i talenti autentici dal rimanere nel sistema pubblico.

Pazienti traditi dal vuoto normativo che governa le cure universitarie

Il vuoto normativo delle AOU non è solo un problema burocratico: è un rischio concreto per la salute dei pazienti. La mancanza di regole chiare genera conseguenze che si riflettono direttamente sulla qualità e sicurezza delle cure.

I conflitti di competenza rallentano le decisioni cliniche cruciali. In assenza di protocolli chiari che definiscano ruoli e responsabilità tra personale universitario e sanitario, spesso si creano zone grigie che ritardano interventi diagnostici e terapeutici. Un paziente può trovarsi in una sorta di “limbo assistenziale” mentre medici universitari e ospedalieri si rimpallano le responsabilità.

La mancanza di protocolli uniformi compromette la continuità delle cure. Ogni reparto, ogni AOU sviluppa procedure proprie, spesso non coordinate con le altre. Il passaggio da un reparto all’altro, o il trasferimento tra strutture diverse, diventa un processo inefficiente che può compromettere l’efficacia dei trattamenti.

Le responsabilità legali in caso di errore medico diventano un labirinto. Chi risponde quando un danno si verifica in una struttura dalla legittimità giuridica dubbia? La sovrapposizione tra ruoli universitari e sanitari, l’assenza di organigrammi chiari e la confusione normativa rendono estremamente difficile identificare i responsabili. Questo non solo penalizza i pazienti che cercano giustizia, ma crea anche incertezza per i professionisti sanitari.

Nella mia esperienza legale in casi di malasanità, ho riscontrato come la disorganizzazione delle AOU possa contribuire a errori evitabili: comunicazioni inefficaci tra team diversi, ritardi nel passaggio di informazioni cliniche cruciali, incertezze sui protocolli da seguire in situazioni d’emergenza.

Un sistema con personale di eccellente preparazione viene minato alla base dall’assenza di regole chiare, a scapito della sicurezza dei cittadini che si affidano a queste strutture.

Un tema centrale per le prossime elezioni regionali

Il caos delle Aziende Ospedaliere Universitarie deve diventare una priorità del dibattito politico regionale. Non si tratta di un problema tecnico relegabile agli esperti, ma di una questione che tocca direttamente la qualità delle cure che ogni cittadino può ricevere.

Le Regioni hanno responsabilità dirette e non possono più nascondersi dietro l’inerzia dello Stato centrale. Il D.Lgs. 517/1999 e la successiva autonomia regionale del 2001 hanno conferito loro ampi poteri di intervento. Dopo 25 anni di immobilismo, il risultato è una frammentazione che ha generato più confusione che efficienza.

Ogni territorio ha navigato a vista secondo logiche locali, spesso poco trasparenti. Questa anarchia normativa ha favorito la crescita di pratiche illegittime: nomine opache, doppi incarichi, creazione artificiosa di poltrone dirigenziali. Il costo di questa inefficienza lo pagano i cittadini, sia in termini economici che di qualità delle cure.

Come ho documentato in precedenti analisi, la gestione delle risorse sanitarie regionali presenta criticità strutturali che si riflettono anche sul funzionamento delle AOU. La politica dei tagli e della mancanza di investimenti strategici ha contribuito a creare un sistema frammentato e inefficiente.

Non bastano più promesse generiche sulla sanità. Il tema delle AOU è un banco di prova concreto per verificare se la politica regionale è davvero intenzionata a riformare un sistema bloccato da un quarto di secolo.

Le riforme che potrebbero salvare la sanità universitaria

Uscire dal labirinto normativo che paralizza le AOU è possibile, ma richiede interventi strutturali e la volontà politica di affrontare resistenze consolidate.

Una legge quadro nazionale rappresenta il primo passo indispensabile. Serve una normativa che unifichi le regole su tutto il territorio nazionale, ponendo fine al caos interpretativo generato da decenni di autonomie regionali disordinate. Questa legge deve definire con precisione:

  • I requisiti minimi per la costituzione di una AOU
  • Le procedure standardizzate per i protocolli Regione-Università
  • I criteri di governance e le responsabilità di ciascun attore
  • I parametri di qualità e efficienza da rispettare

La reintroduzione obbligatoria dei concorsi pubblici per ogni incarico dirigenziale è fondamentale per restituire meritocrazia al sistema. Basta con le nomine “interne” e i meccanismi opachi. Ogni posizione di responsabilità deve essere assegnata attraverso procedure trasparenti che valutino competenze cliniche, manageriali e scientifiche.

Un sistema di vigilanza e audit indipendenti deve monitorare costantemente l’operato delle AOU. Questi organismi, composti da esperti esterni al sistema universitario-ospedaliero, dovranno:

  • Verificare la legittimità delle procedure di nomina
  • Controllare l’efficacia dei protocolli assistenziali
  • Valutare la qualità della formazione medica
  • Monitorare l’uso efficiente delle risorse pubbliche

Una piattaforma di trasparenza consultabile da tutti i cittadini deve raccogliere e pubblicare tutti i dati rilevanti: organigrammi, stipendi dei dirigenti, risultati sanitari, costi per prestazione, indicatori di qualità formativa. La trasparenza è l’antidoto più efficace contro la corruzione e l’inefficienza.

La situazione è talmente paradossale che molti si chiedono se il progresso sia stato davvero un passo avanti. Forse era meglio tornare ai vecchi Policlinici a gestione diretta: almeno funzionavano.

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